Il bruciore lo sentiva ancora, ma era diventato un leggero pizzicore che col passare del tempo si
attenuava sempre di più, lasciandogli sulla pelle solo un ricordo appena fastidioso.
Per il resto Max era molto orgoglioso del suo nuovo, primo tatuaggio che aveva voluto proprio in
mezzo al petto magro e scavato, tra lo sterno e l’omero sinistro. La testa di un’aquila solitaria e
maestosa, un profilo adunco e grifagno che allargava il suo petto poderoso e piumato sulla pelle
pallida e venata di azzurro.
Si diede una rapida pettinata ai capelli lisci e biondicci e al ciuffo che gli copriva quasi interamente
l’occhio destro, lasciando invece scoperta la parte sinistra del suo volto, su cui dall’orecchio grande e
carnoso pendeva un orecchino a cerchio, che ricomponeva, in una simmetria un poco forzata,
l’armonia discontinua dei suoi lineamenti spigolosi.
Un piercing - una piccola puntina metallica - messo lì sull’angolo sinistro della bocca sottile e quasi
senza labbra, completava l’insieme.
“Cosa fai, esci?” Il tono di sua madre era supplichevole: una stucchevole cantilena. Non sopportava
le sue premure soffocanti e appiccicose, il suo stargli sempre dietro a chiedergli qualcosa, a sapere se
aveva mangiato o no, se usciva e quando tornava.
“Sì, ma’, torno presto. Ciao…”
Fuori c’era un’aria frizzante e l’atmosfera era carica di umidità. Forse pioveva.
L’aspettavano Pietro, Salvo e Mario. Sarebbero andati al solito pub accanto al teatro Massimo: una
bevuta, e poi…la serata, la notte li avrebbe presi e trascinati chissà dove, catapultati in mezzo a
tavolini, pedane luccicanti, luci intermittenti.
Al chiarore dell’alba, zigzagando paurosamente tra stanchezza ed ebbrezza, girò la chiave di casa,
senza preoccuparsi di fare rumore.
Si sentiva sudato e appiccicaticcio; anche se era tardi si doveva dare una sciacquata e lo fece
rapidamente, chino di fronte al lavabo. Il vapore aveva appannato lo specchio, quasi cascava dal
sonno, ma riconobbe in tralice quella massa scura che aveva sul petto…quasi se n’era scordato.
L’indomani, una domenica cupa e stentata per via di un sole anemico che faceva capolino tra
stracci di nuvole grigiastre, si svegliò di malumore.
“Te lo porto il caffè?”
“Sì, ma’, adesso vengo io!” E si stiracchiò pigramente guardandosi la punta dei piedi che uscivano
fuori dalle pantofole aperte.
Alzarsi, lavarsi, vestirsi. Trascinandosi raggiunse il bagno e si spogliò: aveva bisogno di una buona
doccia. Fu allora che ebbe la prima avvisaglia di ciò che stava succedendo. Davanti allo specchio, con
lo sguardo finalmente lucido e terso, si accorse che il becco dell’aquila non sfiorava più la sua spalla,
ma sembrava insinuarsi sotto l’ascella sinistra, mentre la sagoma del petto col vistoso piumaggio
andava ben al di sotto della sede primitiva, fino a lambirgli l’ombelico.
Max ebbe un sussulto e l’asciugamano gli scivolò dalle mani: intontito, guardò bene ancora una
volta, ma non c’era alcun dubbio: sembrava proprio che il rapace si fosse ingrandito… o forse era lui
che si ricordava male, o forse non era del tutto sveglio e stava sognando ancora.
A colazione fu di pochissime parole, e del resto c’era sua madre che compensava il suo mutismo,
raccontandogli con mille particolari storie che non lo interessavano affatto, che riguardavano parenti e
vicini di casa di cui non ricordava nemmeno il nome.
Eppure era vero: s’era guardato per l’ennesima volta, incredulo e sbigottito: l’aquila si stendeva
anche verso la parte destra del petto, aveva coperto con il suo colore nerastro il capezzolo,
cominciava ad invadere anche la spalla destra, minacciava i fianchi, l’addome, di lì a poco avrebbe
lambito la peluria del pube fino al sesso.
Bisognava tornare dall’autore di tanto scempio. Un negozietto stretto e lungo come un corridoio, tra
stradine e viuzze affogate in un quartiere popoloso e multietnico. La piazza del mercato -‘a fera o’
luni - era lì, piena di nordafricani e di cinesi, ma soprattutto cinesi, che affollavano con le loro
mercanzie i banconi della strada laterale, tra scatoloni di rifiuti e balle di cellophane appena scartato.
Il portoncino, però, se lo ricordava ancora; era sbarrato e sotto il battente un pezzo di carta sgualcita
su cui c’era scritto CHIUSO PER CESSATA ATTIVITA’
Max fu preso dal panico. Per un attimo pensò di essere vittima di un incubo; una serie di improperi
e male parole gli uscirono dalle labbra, ma furono immediatamente ricacciate indietro in un mugolio
disarticolato. Non poteva mettersi lì a sacramentare in mezzo alla piazza, tra la gente che passava
ignara ed estranea.
Piuttosto si chiese chi gli avesse dato l’indirizzo del tatuatore, perché l’unica cosa da fare, in quel
momento, era di rintracciarlo, il più presto possibile.
Chiamò Mario al telefonino, annotò affannosamente un numero di telefono che gliene avrebbe
dovuto fornire un altro…S’incamminò verso l’indirizzo che aveva segnato sul pacchetto delle Malboro.
Mentre risaliva il Corso principale, mille pensieri gli affollavano la mente. Forse, tra non molto,
l’aquila avrebbe fatto capolino su per il collo e a poco a poco sarebbe risalita sulla sua faccia…Oppure
si sarebbe dilatata sotto, lì sotto, fino alle gambe, fino a che i suoi artigli si sarebbero confusi con le
dita dei piedi? A quel punto sua madre se ne sarebbe accorta, e allora…Non osava immaginare che
cosa sarebbe successo allora…
Non osava immaginare che cosa poteva diventare il suo aspetto, come avrebbe potuto mettere il
naso fuori di casa.
Quando aveva deciso di farselo fare, questo tatuaggio, voleva una cosa piccola, proporzionata, di
cui sua madre - così contraria, così bigotta - non avrebbe mai saputo l’esistenza, lei che non lo vedeva
mai spogliato, lei che nemmeno al mare veniva mai.
Ah se le avesse dato ascolto! Se avesse potuto tornare indietro! Ma chi era quel figlio di… che
l’aveva così rovinato? Quale sortilegio misterioso e perverso aveva messo in atto quel farabutto?
Avrebbe potuto eliminarlo? Sì, aveva letto che i tatuaggi si possono cancellare quasi del tutto con un
raggio al laser, ma chissà quanto costava, e lui che non aveva mai soldi, come avrebbe potuto
procurarseli? Ma era proprio quell’incosciente che avrebbe dovuto risarcirlo… Ah, se lo trovava,
gliel’avrebbe fatta vedere lui, a quel pezzo di…
Uno scroscio improvviso di pioggia lo fece tornare alla realtà: quasi senza accorgersene il cielo era
diventato scuro, le luci tardavano ad accendersi, e lui faceva fatica a districarsi tra vicoli e stradine di
quella parte della città che conosceva così poco. Era stanco, aveva camminato così tanto che gli
dolevano i piedi e non riusciva a trovare l’indirizzo che aveva vergato su quel pezzo di carta; forse
aveva sbagliato a trascriverlo? Si sentì d’un colpo come una corda floscia e tirata giù, col morale sotto
la suola delle scarpe e con la voglia impellente di tornare a casa. Si trascinò fino al Duomo e prese il
primo autobus.
Giunto a casa, non aveva voglia di niente: parlare con sua madre? Aspettava prima di avere almeno
rintracciato l’autore del misfatto, se no avrebbe dovuto sciropparsi una serie di rimproveri e ansietà
che non se la sentiva proprio di assorbire, in quel momento.
Tutta la notte - quella notte che non avrebbe mai più scordato, avesse campato cent’anni - fu un
agitarsi continuo, girandosi da un lato all’altro del letto, con le coperte che gli sembravano
incandescenti e pesanti come il piombo, e con la testa che gli scoppiava di mille pensieri e pulsioni
contrastanti.
“I tatuaggi fanno male, sono roba di malati di mente, di tossici, di paranoici… La pelle ne soffre, ci si
ammala più facilmente di tumori… Bisogna stare attenti a chi li fa - i tatuaggi - perché se non si
seguono norme igieniche ben precise si possono prendere malattie che possono portare anche alla
morte…”.
Ma perché diavolo lo aveva fatto, quel tatuaggio? Perché aveva ascoltato quello stupido che lo
aveva portato là, verso la sua perdizione? Adesso avrebbe voluto strapparsi la pelle, quella pelle così
rosea e liscia appena venata di azzurro, con una peluria sottile e poco evidente come quella di un
bambino e così mostruosamente deturpata. Perché, perché, perché?…
S’addormentò più per sfinimento che per altro alle prime luci dell’alba. Quando sua madre,
preoccupata perché non si fosse ancora alzato nonostante fosse rientrato abbastanza presto la sera
prima, aprì di colpo la finestra piombando nella sua stanza, vide un ammasso informe di coperte e lui
raggomitolato da un lato con le braccia che pendevano da una parte, pensò che era davvero strano
questo figlio che le dava mille ansie e preoccupazioni. Ma si rassicurò: almeno non gli era successo
nulla di grave…
Max si alzò una mezz’ora almeno dopo la venuta di sua madre. Glielo avrebbe detto. Pazienza le
sgridate, i rimbrotti, i ricatti, il lavaggio del cervello, le minacce. Glielo doveva dire. Insieme avrebbero
trovato una soluzione… Suo zio era medico, sarebbero andati da un dermatologo, avrebbero
consultato i più illustri luminari di questo settore…
Strabuzzò gli occhi, Max. No, non era vero, non poteva essere vero… L’immagine che gli
rimandava lo specchio un po’ macchiato, contornato da una cornice bluastra da cui si partivano due
appliques simili a due fiori un po’ sbilenchi, era quella di sempre: dell’aquila nessuna traccia.