Edward Hopper



Nato da una benestante famiglia borghese a il 22 luglio del 1882 a Nyack, piccola cittadina sul fiume Hudson, E. Hopper mostra una spiccata propensione per il disegno industriale e per l’illustrazione cui si dedicherà per quindici anni, salvo poi a scoprire attraverso lo studio dei pittori contemporanei che può indirizzarsi verso altre forme espressive meno tecniche e più suggestive e personali. Particolare importanza rivestono in questo senso i viaggi in Europa, compiuti tra il 1906 ed il 1910 e la partecipazione, nel 1913, all’Armory Show International Exhibition of Modern Art di New York dove riesce finalmente a vendere il suo primo quadro. Dopo questo successo lungamente perseguito, la carriera dell’autore subisce una svolta; i suoi dipinti cominciano ad essere apprezzati dai critici e dal pubblico; nel 1929 il MoMa di New York inserisce le sue opere nella mostra intitolata "Dipinti di diciannove artisti americani viventi” e molti musei americani, come il Witney, sempre di New York, gli dedicano retrospettive, ritenendolo uno dei maggiori caposcuola dei Realisti Americani. Si può dire che dal 1950 in poi la sua fama è ben consolidata, tanto da far diventare la sua produzione un punto di riferimento per successive elaborazioni, ed i suoi quadri costituiscono fonte di ispirazione per altre forme espressive, come il cinema e la letteratura. La maggior parte dei suoi dipinti (una sessantina circa senza considerare gli schizzi e i disegni preparatori) si trovano nei principali musei americani, ma non cessano di suscitare interesse e curiosità nelle città europee; in Italia, ad esempio, si sono tenute recentemente delle mostre a Milano, Roma e Bologna, facendo registrare un gran numero di visitatori.
Cosa hanno dunque questi quadri che hanno riempito con la loro presenza un segmento così attuale della nostra cultura?
Partiamo dalla forma e dal colore. I tratti sono nitidi, senza sbavature: nessuna concessione agli sperimentalismi e alle avanguardie. Ciò che gli interessa è dipingere il fatto, non il vero. Hopper non dà una spiegazione dell’opera, ma si limita a suggerire quello che lo spettatore farà osservando i suoi dipinti.
Le tinte sono nette e pastose, nessun cedimento alle suggestioni astrattiste, dove pure la contemporaneità doveva indirizzarlo; i soggetti si possono dividere in due grandi categorie, ugualmente esplorate dal Nostro: paesaggi e figure. Hopper aveva comprato una casa prospiciente il mare, dotata di una grandissima finestra che inondava di luce lo studio nel quale operava. Ma stranamente, non dipinse mai quella parte dell’oceano, anche se i soggetti “esterni” riguardano navi, imbarcazioni e ponti che rimandano al suo passato di grafico e aspirante costruttore navale.
I paesaggi, urbani o no, si aprono su superfici ampie, di un’America tra gli anni ’40 ‘50 e ‘60 che nell’esposizione di spazi ancora inesplorati, rivelava sete di consumo ed ansie di liberazione. Più complesso è il discorso che riguarda i personaggi presenti nelle tele. Pochi, raramente più di due o tre, sono per la maggior parte racchiusi negli interni di una casa, dietro una finestra, o affacciati ad un patio, appoggiati al parapetto di una terrazza, seduti su una poltrona, accovacciati su un letto semi-disfatto. Privi di dinamismo. Molto si è detto su questa particolare scelta che non è, non può essere solo stilistica.
“Cosa guardano? Chi guardano? Dove guardano?” Sembra che queste figure siano le mute testimoni di qualcosa che sta per accadere, o che forse è già accaduto …
Conosciamo tutti le rovine di Pompei, dove furono ritrovate persone sorprese dalla tragedia, "fissate per sempre" in un'azione (un uomo fa il pane, due amanti si abbracciano, una donna allatta il bambino), raggiunte improvvisamente dalla morte in quella posizione. Analogamente, Hopper ha saputo cogliere un momento particolare, quasi il preciso secondo in cui il tempo si ferma, dando all'attimo un significato eterno, universale. Nei suoi quadri aleggia il silenzio, un silenzio che è una “dimensione di ascolto” come è stato detto efficacemente. E questo rimanda alla solitudine. È stato più volte ripetuto che Hopper sia il “pittore della solitudine, dell’incomunicabilità, che ritrasse coloro che sembravano sopraffatti dalla società moderna, che non potevano rapportarsi psicologicamente agli altri e che, con gli atteggiamenti del corpo e i tratti facciali, indicavano di non avere mai avuto una posizione di autorità. Dipinse gli incapaci, gli isolati e gli alienati dalla società. Gente che viveva sola anche se gli altri erano presenti, inadatta o non interessata a creare contatti”.
Tutto questo sgorgava dal suo pennello senza che lui lo volesse o l’avesse preordinato.  Introverso e solitario come i personaggi dei suoi dipinti, a chi gli chiedeva cosa volessero dire, rispondeva di non saperlo, di ubbidire soltanto ad un’esigenza interiore che lo spingeva ad esprimersi in quel dato modo.
Forse, grazie a quest’indeterminatezza suggestiva, criptica, nascosta tra le pieghe della coscienza e del vissuto, o solo dell’immaginato, le tele di Hopper hanno fornito materiale per il cinema e per la letteratura. Del suo rapporto con il cinema e la fotografia si è detto e scritto tanto. La grandezza delle opere del celeberrimo pittore americano ha da sempre ispirato la settima arte, a partire dal 1925 quando il suo dipinto The House by the Railroad illuminò Alfred Hitchcock per il film Psyco. E l’elenco potrebbe continuare indefinitamente: che dire delle inquadrature de La finestra sul cortile sempre dello stesso Hitchcock, per non parlare di Wim Wenders? Quest’ultimo non solo ha dichiarato di preferire Hopper tra i pittori del Novecento, ma ha anche sottolineato che “alcune scene del suo Paris, Texas potrebbero essere state dipinte da Hopper”. E molti altri registi si sono ispirati alle inquadrature di Hopper: Ridley Scott, Robert Altman, Dario Argento, David Lynch, Francis Ford Coppola, solo per citare alcuni dei più noti.
In realtà, uno dei segreti del successo di pubblico di Hopper è proprio dovuto al taglio cinematografico dei suoi quadri. Lo spettatore, abituato alle inusuali prospettive della cinepresa, permesse dagli accorgimenti tecnici, si trova a suo agio con gli scorci e le atmosfere delle scene hopperiane.
Questa innegabile attitudine a dipingere il silenzio, lo rende il più narrativo dei pittori, e con “Ombre" 1, una raccolta di racconti inediti,  tredici scrittori americani, (Megan Abbot, Jill D. Block, Robert O. Butler, Lee Child, Nicholas Christopher, Michael Connelly, Jeffery Deaver, Stephen King, Joe R. Landsale, Joice C. Oates, Kris Nelscott, Jonathan Santiofer e Lawrence Block)  tutti famosi e titolati, sono entrati nel suo mondo trasformandolo in parole,  cimentandosi ognuno in un racconto che trae ispirazione dal quadro di Hopper che li ha maggiormente colpiti e costituisce il punto di partenza per una storia che si snoda e si sviluppa autonomamente. Il discorso dell’indeterminatezza sembra in questo caso trovare la sua più ampia realizzazione. Lo spunto, il dipinto, appare a volte scelto come un pretesto di quanto poi si narrerà in seguito. Gli autori di questa antologia hanno dato il loro respiro a questi testi, pieni di grazia e di realismo in cui prendono corpo i personaggi dipinti, e dove la scena americana svela il suo volto magico e oscuro, la sua struggente verità. A livello temporale tutti i racconti sono ambientati tra la Grande depressione e la guerra fredda, in luoghi che non hanno niente di caratteristico: interni di locali, tavole calde, uffici. Scene quotidiane, luoghi raggiungibili da chiunque e di cui si esalta la normalità, ma da cui scaturisce quasi sempre una componente drammatica.
I racconti appartengono a generi diversi: prettamente narrativiLo spogliarello”, “La storia di Caroline”, “Soir bleu”, “La donna alla finestra”, “Natura morta 1931”, “Finestre nella notte” e “Autunno in tavola caldanoir La verità su quanto è successo”, “Nightawks”, “L’incidente del 10 novembre”, “Il proiezionista”, fantastico Stanze sul mare”, e horror La sala della musica”.
Ogni racconto, abbiamo detto, prende avvio da un quadro che viene riprodotto all’inizio di ogni storia. Ed osservando questi quadri il lettore si chiede a quale momento della storia si riferiscono, quale attimo lo scrittore ha colto per costruire la vicenda. E se questa è stata suggerita dal quadro, o era già ben presente nella sua mente ed aveva bisogno proprio solo di quest’input per venire fuori.
Una ballerina nuda (The Girlie show 1941). Un pierrot triste e una donna dalle gote rosse alle sue spalle (Soir bleu 1914). Una ragazza sola in un caffè, con un cappellino (Automat 1927). Un uomo che legge il giornale e una donna che, annoiata, pigia un tasto del pianoforte (Room in New York 1932) . La vetrina curva del diner più noto d’America, dove un cameriere serve un uomo e una donna che appaiono molto intimi (Nightawks 1942). S’intravede una ragazza ad una finestra. (Night windows 1928). Una ragazza nuda, ad eccezione delle scarpe, guarda fuori dalla finestra (Eleven A.M. 1926). Una giovane donna sola in una stanza attigua ad un cinema affollato (New York Movie 1939)
Tutti gli autori, conosciutissimi dal pubblico americano, pluripremiati e plurititolati, si approcciano ognuno con il proprio bagaglio emozionale alle opere di Hopper; alcuni riescono di più, altri meno, com’è ovvio che sia. Stephen King realizza un horror partendo da un quadro che all’apparenza trasmette solo una generica e quotidiana incomunicabilità. “Room in New York 1932” da cui prende avvio il suo “La sala della musica” sembra una scena tratta dalla normale vita di una coppia; lui legge il giornale che sfiora il tavolo rotondo posto al centro della stanza; lei, col gomito poggiato sullo stesso tavolo, pesta distrattamente i tasti di una pianola; sullo sfondo una porta tra due quadri. Leggendo il racconto apprendiamo che gli Enderby (questo è il nome dei due) avevano ribattezzato quella stanza sala della musica e che la loro innocua apparenza nasconde in realtà uno spietato sodalizio che trova la maniera di fare soldi combattendo così la Grande Depressione. Come?  Lo scoprirete leggendo il racconto che presenta uno sviluppo davvero imprevedibile.
Di genere diverso è “Natura morta 1931” di Kris Nelscott ispirato da “Hotel Room 1931”. Una donna giovane siede sul letto di un albergo, semivestita, con i bagagli appoggiati accanto. È reduce da un lungo viaggio che ha compiuto in molte città americane, fino ad approdare a New York, dove adesso si trova, portando con sé una grossa somma di denaro che ha recuperato durante il suo pellegrinaggio, prelevandolo dalle banche scampate alla crisi economica che sta devastando un’America attraversata da un odio razziale che non dà scampo. Porta con sé anche il ricordo di un’ingiustizia di cui è stata testimone da piccola e da cui si vuole emendare. Cosa farà di questo denaro attraverso il quale cerca il suo riscatto? Questo racconto, che ci è molto piaciuto, contiene tutte le caratteristiche per diventare un romanzo, mentre altri ancora sono stati apprezzati dalla critica, come “Autunno, tavola calda” di Lawrence Block ha ottenuto il prestigioso premio Edgar Award 2017 nella sezione “Migliore racconto” 
Insomma, per concludere, se vogliamo unire il piacere di leggere una storia al piacere di osservare i quadri più significativi di un pittore così emblematico, la raccolta che abbiamo esaminato è proprio giusta per questo scopo.

1 Ombre. Dipinti ispirati a Edward Hopper” (trad. L. Briasco, F. Deodotto, L. Sacchini, Einaudi, 304 pagine  euro 18,,50)    

BIBLIOGRAFIA
Klaus Feltrin Edward Hopper, illuminando uno sguardo assente
Goffredo Fofi  Hopper e il cinema (estratto dal saggio in  catalogo)
Carter Foster  Il disegno di Hopper (estratto dal saggio in catalogo)
Gail Levin Edward Hopper, biografia intima
Elena Pontiggia  Edward Hopper, pittore metafisico
powered by Guido Scuderi
OLYMPUS DIGITAL CAMERA
I quadri di Hopper che hanno ispirato i racconti
sfoglia il libro online