Page 90 - Miette Mineo - La lava e la polvere
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riempiendola di una felicità angosciata.
La storia, infine, si ripeteva: lei figlia di chissà chi, cresciuta tra
gli stenti e l’abbandono. Sua figlia, che non avrebbe mai avuto un
padre che la riconoscesse, che le desse un nome.
A volte, stringendo quel fagottino roseo tra le braccia, la
disperazione l’assaliva. E la rabbia di non aver potuto fare niente
contro quella prepotenza boriosa e vuota, di essere stata inerme e
impotente, costretta a subire, come sua madre, come tutte quelle
della sua condizione.
La faccenda era stata liquidata con solerte rapidità dalla stessa
baronessa. L’aveva convocata, una volta sapute le sue condizioni;
con aria melliflua aveva rivolto un generico predicozzo sull’incauta
esuberanza delle fanciulle che spesso sono occasione di peccato
per gli ignari giovani, e che quindi devono espiare con la preghiera
e con il pentimento l’essere state strumento inconsapevole di
perdizione. Le aveva messo in mano una piccola somma di denaro,
e garbatamente, (oh, sì, quanto garbatamente!) Le aveva dato il
benservito, giurando che l’avrebbe sempre ricordata nelle sue
preghiere serali. Non aveva voluto sapere più niente di lei e del
nascituro.
Stringendo le sue povere cose, Rosina se n’era andata dal palazzo
all’albeggiare di una gelida mattina di novembre, accompagnata
dalla sferza di un vento intermittente.
Fortunatamente, e senza alcuna titubanza, La buona Marta
l’aveva accolta in casa sua.
“Che differenza c’è? Sei o sette bocche da sfamare sono la
stessa cosa! I miei figli maggiori lavorano, le due mezzane possono
aiutarti a tenere il piccolo quando tu sarai a servizio da qualche
parte, e… poi si vedrà, la sorte può girare dal verso giusto, una
buona volta, basta non disperare!”
Poche settimane dopo, in una notte schiarita dalla luna, Rosina
aveva partorito con facilità una bambina cui aveva voluto dare il
nome di Stella, in ricordo di una Madonna con la stella in capo,
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