Page 26 - Corti di carta
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faccio fatica a stargli dietro.
La mia vita accanto a lui è una sequenza luminosa.
Ho ancora cinque anni, siedo addosso a mia zia e i miei occhi
sono strizzati perché investiti da una luce accecante. Ricordo ancora
quest’alternanza di luci e di ombre. Ricordo come ero affascinata
dall’immaginare situazioni e personaggi irreali che danzavano sulle
pareti, che si inseguivano in un turbinio incessante.
Per la Comunione qualcuno mi regala una macchina fotografica,
di quelle automatiche.
È per questo che sono diventata una fotografa.
Dapprima semplici gruppi familiari, a due, a tre, colti in
particolari situazioni di allegro cameratismo, con i parenti tutti
schierati e raggruppati dopo abbondanti libagioni.
La casa di campagna dei miei nonni. Lì la luce la faceva da
padrona quando di giorno si insinuava tra i castagni secolari e
invadeva il terrapieno occupato dall’erba secca e sitibonda. O la sera,
quando il buio aveva riempito tutto intorno, e rimanevano solo le
falene a danzare accanto ai flebili agglomerati luminescenti dei lumi
a petrolio. Fuori il volo basso delle lucciole al verso continuo dei
grilli.
È giorno, adesso: apro un occhio, poi un altro; uno spiraglio di
luce filtra attraverso una sconnessura della persiana, dopo il buio
della notte.
Ancora buio, ancora luce.
«Ho fatto il caffè, ne vuoi un po’?». È Marco che me lo porta.
Rido, mi schermisco, mi prende in giro. Mi piace farmi fare le
coccole la mattina appena sveglia.
Per i miei diciotto anni la seconda macchina fotografica, quella
“seria” con lo zoom e qualche obiettivo intercambiabile.
Adesso non più gruppi familiari o sbiadite fotografie di paesaggi,
ma i volti delle persone a me note, o i particolari di un fiore, o di un
pezzo di mobile.
Mi piace di più il bianco e nero; preferisco fotografare oggetti di
uso comune, come una bottiglia o un vaso da cui si proiettano ombre
lunghe ottenute con un faretto e un cartoncino bianco, anzi grigio,
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