Page 139 - Corti di carta
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«Il lavoro in Amnesty è però intellettualistico, forse un po’ snob.
Come si realizza allora un impegno così coinvolgente, così totaliz-
zante?».
«Sì, per Amnesty bisogna avere una grande capacità di astrazione,
ma il rapporto fisico lo realizzo al centro Astalli. Lì ci si mette
continuamente in discussione nel contatto e nel confronto con l’altro.
La domanda è: come potremmo essere se fossimo nelle stesse
condizioni di quella persona?
Perché si tratta di rapporto con le persone, non con involucri
sensibili o virtuali, ma con un bagaglio di esperienze quasi sempre
tragiche. Vengono qua attirati da una propaganda insensata. La
comunicazione prodotta dai media è deviante. Per loro Lampedusa è
l’Europa. Sono convinti di venire e trovare lavoro; non capiscono
che anche per noi ci sono delle difficoltà, credono che non vogliamo
aiutarli».
Le chiede in che cosa consiste il suo lavoro. Perché, come tutti,
anche lei è costretta a lavorare per vivere.
«Lavoro da diciotto anni per un grosso Ente. Prima svolgevo
mansioni organizzative di grossa responsabilità, adesso mi occupo di
organizzare attività turistiche per giovani e adulti. Prevalentemente la
mia attività si svolge al telefono».
Si sente che non è contenta, che si sarebbe aspettata maggiore
apertura mentale da parte della dirigenza, che avrebbe voluto farsi
ragione legalmente, ma che per motivi di opportunità non è andata
fino in fondo con una vertenza.
«La vita non è facile per i cittadini, specialmente per chi ha un
handicap piuttosto grosso.
Basti pensare alle barriere architettoniche, al caos che regna nelle
strade delle nostre città. Abbiamo un’amministrazione autoreferen-
ziale che cura soltanto i propri interessi e si preoccupa poco o niente
del benessere dei propri componenti».
Qui la disponibilità e l’apertura si coniugano con la protesta
civile: difficile non darle ragione…
Ombre lunghe si stagliano adesso sul pavimento: l’atmosfera si fa
maggiormente confidenziale, il tono diventa più intimo, più dimesso.
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