Page 149 - Corti di carta
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LA VILLA SUL LAGO





               I gessetti neri, gli inchiostri, profumatissimi, alla china. Le matite,
            alcune smozzicate per il lungo uso, altre, dalla punta molto affilata,
            in attesa di essere prese e fatte vivere di una vita se non autonoma,
            almeno creativa, giacevano da un po’ di mesi nel più completo oblio.
            Tanto che uno strato di polvere leggera s’era depositato sulle stesse.
            Come sul tavolo da disegno, e sulle carte e sugli album che numerosi
            si affollavano sulle scansie e sugli scaffali che contornavano nel suo
            intero perimetro la stanza.
               A nulla erano valse le proteste di Betta, o Elisabeth, o meglio
            ancora Betty, diminutivo con cui amava farsi chiamare la stessa con
            un   rigurgito   di   anglofilia   che   contraddiceva   le   sue   origini
            robustamente padane e il livello – piuttosto basso – ahimè, dei suoi
            studi.
               Perché era una lotta, a volte senza quartiere, tra lei ed il suo –
            come dire? – datore di lavoro che non tollerava alcuna intrusione nel
            suo   studio,   luogo   deputato   da   sempre   alle   sue   fatiche   grafico-
            letterarie.
               Era   uno   stanzone   piuttosto   ampio,   un   lato   del   quale
            completamente occupato da grandi finestre da cui la luce (quando
            c’era) entrava prepotentemente sospinta dai venti che quasi sempre
            soffiavano in quel punto. Lui non aveva voluto né tende né veneziane
            che offuscassero quell’elemento così raro e prezioso di cui aveva
            così tanto bisogno per lavorare.
               Il resto della casa si svolgeva di sotto, ed era composto di una
            cucina, ampia  e confortevole  per  poterci  mangiare  in due, o  in
            quattro… massimo sei persone, secondo l’estro del padrone di casa,
            una stanza da letto in fondo ad un disimpegno in cui s’apriva anche
            un   bagno  piccolo  ed   essenziale.   Non   c’era  ingresso  e   s’entrava
            direttamente nel soggiorno, anch’esso grande e finestrato quanto lo
            studio superiore, cui si accedeva per mezzo di una scala a chiocciola
            in ferro battuto. Il che rendeva la zona rappresentanza e lavoro – se
            così si può dire – completamente disimpegnate dalla zona notte-
            conviviale.




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